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La cucina Polesana, fra gesti, memoria e tempi

La pinza, uno dei piatti tipici della Cucina polesana

Prosegue il nostro viaggio culinario e mnemonico all’interno del Polesine degli usi e delle tradizioni. Del Polesine che, per quanto riguarda la cucina è contaminazione e territorio. Un viaggio che non ha potuto non tener conto di quanto, in passato, la storia ha dato a queste terre. E’ infatti in questo mix la vera magia della cucina polesana, che si trasforma, a volte, in pura poesia, in sacralità. Quella del tempo, dei gesti, delle ricette. Di rumori di fondo che servono ad alimentarne il mito e la bontà.

La cucina polesana della memoria

La memoria della cucina polesana è un luogo di un tempo sospeso. Durante il quale le operazioni si scandivano con sequenze quasi liturgiche. Senza interruzioni. Solo di tanto in tanto, la silenziosa lentezza veniva interrotta dai coltellacci che rumorosamente lavoravano sul pistagrassoOppure dallo sfrigolio di lacrimanti soffritti. Una cucina, insomma, consacrata all’uso, in gesti ripetuti da secoli, con ingredienti parcellizzati e miniaturizzati che solo la resadóra, la reggitrice, conosceva. Aggiungi un cicinìn de sale, un fia’ di butierèro, un spìssego di pepe, una làgrema di olio. Altrettanto misteriosi restano i tempi di cottura. Fai andare il tempo che ci vuole, il tempo, sacro, definito dal sapere e tramandato in una sorta di imitazione. Oppure, come nella cucina aristocratica, con tempi regolati da altre pratiche : “lasciarai bollire per spacio d’un Miserere” (C. Messibugo). “Facendo bollir l’uovo per lo spatio d’un Credo“, (B. Scappi).

I due ambiti basilari della cucina della memoria, sono costituiti dal focolare e dal forno da pane. Ambedue con le loro bocche, nere o rosseggianti a seconda del fuoco. C’era poi l’aròla, la piccola ara, custode del mistero della cucina. Su di essa, ricoperta col cuèrcio, il sole, il testo a sua volta sepolto sotto la cenere e le braci, dove cuocevano una miriade di pinze in foco caldo. Ricoperte sopra e tutt’attorno di braci ardenti, secondo consuetudini descritte addirittura da Catone nel suo De Agricoltura. Una varietà di pinze che non ha eguali. Dalla miazza, della vigilia di Natale e di Carnevale, alla pinza di Natale (con l’uva che veniva conservata fin dalla vendemmia). E poi ancora, la pinza della Vècia, la micona di Sant’Antonio del Fuoco, la pinza di San Biaso, la mariana e la sorza (tipicamente carnevalesche), la pinza dei cuchi, per la Nunziata del 25 marzo.

Le “pinze”

Un’infinità di preparazioni tradizionali che, purtroppo, in parte, sono andate perdute nel tempo. Si possono infatti aggiungere : la pinza mula (per i canti di questua), brassadèle, colombine e pasqualine del Sabato Santo, pinza di patate americane, pinza poarina di pane, pinza di zucca, pinza dei Morti, l’èsse, la pinza alla munara. E poi la più classica di tutte, la pinza unta che, nelle varie parlate polesane assumeva anche altri nomignoli. La rùstega, la suèlta, la pinza zala, la pinza vilana. Rimane però la pinza per eccellenza, perfetta metafora di cibo e conoscenza.

E se dalla canna fumaria, durante le feste, scendeva anche la Befana (la cui presenza era avvertita dalla cenere smossa), sul fuoco bolliva sempre il paiolo. Esso non veniva mai svuotato completamente, in modo da aggiungere, al fondo di cottura, sempre nuovi legumi, erbe o radici. Oppure nuove farine, strutto o lardo. Non veniva mai neanche staccato dalla catena, se non per le pulizie stagionali, connotate come cerimonie di purificazione.

Fonte: Cucina Polesana. Foto: Piccole Ricette, Cucinoconpoco, Blog.

La cucina Polesana, fra gesti, memoria e tempi ultima modifica: 2019-07-29T17:01:26+02:00 da Alessandro Effe

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